A scuola si andava con quei vecchi autobus dell’Atac, verdi, come l’Alfetta della polizia, che stazionava quasi tutti i giorni davanti all’ingresso. I motorini erano pochi, tra questi il “vespino 50” era quello che andava di più, il casco non era obbligatorio, ma lo portavano in molti, più che altro tornava utile per le manifestazioni.
Il Croce, in quegli anni, era in via Palestro, all’angolo con San Martino della Battaglia, a due passi dalla Stazioni Termini. La collocazione lo rendeva facilmente raggiungibile anche dalla periferia, gli studenti arrivano non solo da quartieri borghesi come il Nomentano, Piazza Bologna, ma anche dalla Tiburtina e da Montesacro, zone più popolari. Perché in quegli anni le classi sociali, la borghesia, il proletariato, il sottoproletariato delle borgate, erano una realtà, una cosa che si vedeva, quasi tangibile, non serviva un manuale di sociologia per capire da dove arrivavi, quali erano le origini della tua famiglia.
A un certo punto - non esiste una data precisa - la moda ha coperto tutte le differenze, è bastato un paio di blue jeans per tracciare un nuovo confine, non più sociale questa volta ma generazionale. Erano pochi quelli con più di venti anni che indossavano i jeans; e dopo un po’ è bastato un eskimo, una borsa di Tolfa e un taglio di capelli più lunghi, per sentirsi “catalogato” come uno di sinistra. E a quei tempi si rischiava la vita persino per come ti vestivi, le aggressioni e gli scontri per motivi politici erano all’ordine del giorno. Allora la politica appassionava, coinvolgeva, divideva, nella società, nella scuola, persino dentro le singole famiglie, il più delle volte i figli erano contro i padri, ma capitava pure tra fratelli e sorelle di ritrovarsi, e non solo metaforicamente, su due barricate diverse. Il Croce era tra i licei più impegnati politicamente, per un lungo periodo si sono succedute occupazioni e autogestioni, quando per fare un’assemblea d’istituto dovevi scontrarti con il preside e la grande maggioranza dei professori (alcuni per fortuna erano con noi!), rischiando non solo le misure disciplinari, sospensioni e sette in condotta, ma addirittura l’intervento della polizia per sgomberare la scuola. La vicinanza della sede del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI, di Via Sommacampagna, una finestra affacciava addirittura nel cortile della scuola, è stato un elemento in più di tensione. All’epoca i professori, anche se fortemente contestati, godevano di maggiore prestigio sociale; il più delle volte criticavamo i contenuti di quello che insegnavano, così per sfidarli si finiva per studiare anche di più. Con molti di loro si era instaurato un buon rapporto, fondato principalmente sulla stima reciproca, non poche volte ci hanno fatto da scudo in situazioni di pericolo, all’uscita da scuola.
Raccontate così sembrano storie di un altro mondo è in parte lo sono, allora in Portogallo, Spagna, Grecia non c’era ancora la democrazia, vedere crollare quelle dittature è stato motivo di gioia vera, avevamo manifestato per loro, fatto assemblee, collette. Alcuni dei miei compagni l’estate del 1976, fatta la maturità sono partiti per Lisbona, quando era in corso la “rivoluzione dei garofani”. A cosa avremmo fatto da grandi non ci pensavamo, eravamo troppo impegnati. In questo senso ci sentivamo partecipi di un movimento più grande, avevamo fiducia nel futuro e nel cuore la speranza di potere cambiare, di battere le ingiustizie del mondo. Forse ci saremo illusi, ma ci credevamo. Non mi piace fare paragoni tra i giovani di oggi e quelli di ieri, non ha senso, la mia poi è stata una generazione che ha finito per essere accecata dalla ideologia, che si è fatta trascinare in una spirale di violenza atroce, tanto che quegli anni sono spesso, ingiustamente, ricordati solo come gli “anni di piombo”.
Quelli che stiamo vivendo non sono tempi facili, mancano i riferimenti, la globalizzazione ha cancellato ogni confine e ha portato dentro casa nostra le guerre e la miseria, le bidonville sono sotto le nostre finestre. Ecco quello che manca, è la speranza nel futuro, la fiducia che si può cambiare quello che non va a scuola, in Birmania, nel mondo.