giovedì 31 maggio 2007

Erano gli anni Settanta

Sofri spiega quella mazzetta di omicidi che gli fu chiesta

Adriano Sofri, sul Foglio del 29 maggio, ha raccontato di un suo colloquio - “un po’ più di cinque anni dopo il 12 dicembre 1969 di piazza Fontana, rinominato (e anestetizzato) ormai ufficialmente Strage di stato” - con l'ex responsabile dell'Ufficio affari riservati del Viminale, Federico Umberto D'Amato, il più noto e influente titolare dei servizi italiani del dopoguerra. “Quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio, ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidi”, destinati a porre fine all'attività del gruppo terroristico Nap (Nuclei armati proletari), che tra i suoi membri aveva anche alcuni ex esponenti di Lotta Continua… In America, da storie come queste ci avrebbero tirato fuori un romanzo di successo e poi uno di quei filmoni che ti tengono con il fiato sospeso fino all’ultima scena. A noi invece non rimane altro che tanta amarezza, ma che razza di paese è questo, quanti buchi neri ci sono nella nostra storia? E chi ci dice che sia tutto finito?
Comunque, qualcosa notizia in più su questa incredibile vicenda, la potete trovare sul blog: georgiamada.


mercoledì 30 maggio 2007

17 febbraio 1977


Il segretario generale della Cgil Luciano Lama tenta invano di tenere un comizio all'interno dell'Univerisità di Roma. Il documento proviene dall' Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, e l’ho trovato su You Tube. A questo proposito merita un plauso fmf1943

lunedì 28 maggio 2007

Adriano Sofri

Lettere a un giovane apprendista assassino

“Si chiede perché in Italia sia durata tanto la violenza: perché erano durate tantissimo le parole. Erano state a lungo parole che rispondevano a fatti. C’erano i manifestanti da una parte, e scandivano slogan, cantavano e gridavano a squarciagola. Di fronte altri manifestanti, altri slogan, altri canti. In mezzo, nemico, lo stato.”

il Foglio, 26 maggio 2007

domenica 27 maggio 2007

Gli anni '70 su Wikipedia

Giorgiana Masi
Alla fine sono caduto in questa ragnatela incredibile delle commemorazioni. Moro, Impastato, Calabresi, non fai in tempo a ricordare una vittima degli anni Settanta che ti viene in mente subito un altro nome. Una catena di sangue impressionante. Il 12 maggio scorso ricorreva il trentennale dell’assassinio di Giorgiana Masi, cercando in rete qualche notizia sono finito su Wikipedia, dove, con sorpresa ho scoperto che ci sono una marea di notizie e link interessanti su quel periodo.

venerdì 18 maggio 2007

Un libro dalla parte delle vittime

Vivere dopo il naufragio

Mario Calabresi racconta la sua famiglia. E le altre

Chiara Geloni

L'unica cosa che Mario Calabresi non racconta, nel suo Spingendo la notte più in là (Mondadori, euro 14,50) è se a un certo punto l’ha capito o soltanto intuito, se insomma lo sa che un libro così lo poteva scrivere soltanto lui. Se l’ha scritto anche per questo, per una specie di dovere civico, oltre che per tutto il resto che si immagina: il bisogno di guardare in faccia, alla fine di un lungo percorso, una storia come la sua, innanzitutto. La determinazione di raccontare chi è stato suo padre, vittima di una condanna mediatica incredibile oltre che della violenza di chi l’ha ucciso, oggetto di un pregiudizio che sopravvive alla sua stessa morte, agli anni, alle sentenze: «Calabresi assassino», capita ancora oggi di sentir dire in qualche corteo, a Mario è capitato. Poi le storie degli altri, delle persone incontrate, e l’istinto da cronista di raccontarle. Infine la rabbia, il dolore, il coraggio.

Scrivere questo libro era certamente un bisogno, e Mario Calabresi non lo nasconde: gli scaffali delle librerie sono pieni di libri sugli Anni di piombo, spiega. Quasi tutti scritti dagli ex terroristi: «È un autentico filone culturale», gli dice uno dei suoi interlocutori nel libro. Gente che si è «ravveduta, anche se non pentita», come proprio qualche giorno fa abbiamo letto di una protagonista di quelle vicende. Persone che i giornali intervistano e descrivono nella loro nuova vita: volontariato, impegno sociale: quasi come degli ex combattenti indomiti. Senza che mai si racconti che cos’hanno fatto prima: dei delitti, delle responsabilità, dei morti non si parla.

Per questo, per Mario Calabresi, scrivere un libro così era anche un dovere. Non solo, ovviamente, perché lui, oltre che il figlio del commissario Calabresi, è un giornalista. Ma perché le circostanze della vita, i suoi meriti prima di tutto, lo hanno portato a essere uno di quelli che i giornali li fa, un giornalista del giro che conta. Un capo, e per giunta un capo di Repubblica: il giornale – autorizza a scriverne la schiettezza con cui Mario nel suo libro affronta l’argomento – il giornale che pubblica Sofri. Calabresi non è il (solito?) “parente della vittima” che contesta da fuori il sistema dei grandi giornali. Lui è uno che ha il peso, il ruolo e l’autorevolezza per farsi sentire, e in ogni modo, per il “sistema”, è uno con cui bisogna fare i conti. Infatti la sua presenza in questo mondo è già, di per sé, un segno di contraddizione, un invito implicito a un supplemento di riflessione: e il libro è pieno di episodi, di gaffe e di atti di sensibilità, compiuti da giornalisti cui è capitato di lavorare con Mario, di trovarsi a maneggiare la sua storia avendolo seduto accanto. Ora, con il libro, questo compito viene assunto in modo esplicito, apertamente: i “parenti delle vittime” non sono una categoria astratta, sono persone: sono io, dice questo libro a noi professionisti della cronaca, prima ancora che ai nostri lettori.

Non è per caso che a Mario Calabresi è capitato questa specie di dovere, ed è l’altro motivo per cui questo è un libro bellissimo e importante: qualche anno fa infatti lui stava per dire di no all’offerta di Repubblica, per rispetto della sua storia e di sua madre. Un politico di centrodestra, alla camera, l’aveva amichevolmente avvertito, rimettendolo al suo posto, nel ruolo che il destino gli aveva assegnato: «Tuo padre si starà già girando nella tomba», gli aveva detto.

Il dialogo in proposito tra Mario e sua madre, nella cucina cuore della casa milanese di lei, è qualcosa di così intimo e prezioso che è giusto riservarne la lettura a chi vorrà affrontare il libro per intero. Basti dire che è stato quello il momento in cui lui ha deciso di rifiutare lo schema, di andare: di essere libero. E non è che uno dei tantissimi momenti in cui questa donna, rimasta vedova a venticinque anni con due bambini piccoli e un altro in arrivo, rivela nel racconto del figlio una prodigiosa capacità di andare avanti «scommettendo sulla vita», testimoniando senza fronzoli e senza protagonismi le due gigantesche verità in cui crede: che la vita è più forte della morte e che l’amore vince sull’odio e sul rancore. Viene in mente la citazione del cardinale Tettamanzi a Verona: «È meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo», a proposito di Gemma Capra Calabresi, della sua fede vitale, concreta, antiretorica, incarnata nel quotidiano di un’esistenza segnata dalla tragedia e allo stesso tempo piena di gioia.

Così, a causa di tutto questo, alla fine Mario Calabresi ha scritto, ha dovuto scrivere, questo libro. Con il suo stile asciutto da giornalista anglosassone, con le sue precise parole da ex cronista di agenzia, mettendoci dentro tutto il suo mestiere e tutta la sua vita. Ed è capitato che alla fine il libro uscisse mentre il parlamento diceva il sì definitivo all’istituzione della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo, che dal prossimo 9 maggio, trentennale dell’omicidio di Aldo Moro, forse contribuirà a fare dell’Italia un paese un po’ più capace di vivere i suoi lutti collettivi. Se andrà così, Mario e la sua famiglia sapranno esserne felici. Ma non dimenticheranno per questo, e non sarebbe giusto lo facessimo noi, quanta fatica si fa a lasciarsi «strappare alle onde» dopo un naufragio.

(Europa, 15 maggio 2007)


lunedì 14 maggio 2007

Peppino Impastato


I cento passi

Nella notte tra l'8 e il 9 maggio 1978, lo stesso giorno dell'assassinio di Aldo Moro, Peppino Impastato, giovane militante di Democrazia proletaria e fondatore di radio Aut, viene ucciso da Cosa Nostra, a causa delle sue battaglie contro la mafia. Per questo delitto è stato condannato all’ergastolo il boss Tano Badalamenti.

mercoledì 9 maggio 2007

9 maggio 1978

Il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni di prigionia, Aldo Moro viene ucciso dalle Brigate Rosse. Il corpo viene ritrovato nel cofano di una Renault 4 rossa a Roma, in via Caetani, emblematicamente a metà strada tra Piazza del Gesù (dov'era la sede nazionale della Democrazia Cristiana) e via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del Partito Comunista Italiano), come un'ultima simbolica sfida alle forze di polizia ed alle istituzioni democratiche.

sabato 5 maggio 2007

Mio fratello è figlio unico

Il Fasciocomunista

L’ultimo film di Daniele Lucchetti, Mio fratello è figlio unico, tratto dal libro “Il Fasciocomunista” di Antonio Pennacchi, racconta la storia – ambientata nella provincia italiana degli anni ’60 e ’70 - di due fratelli Accio (Elio Germano) e Manrico (Riccardo Scamarcio), uno fascista e l’altro comunista. Il film è delizioso, commovente l’interpretazione di Elio Germano, ma sono tutti bravi, Riccardo Scamarcio, Angela Finocchiaro, pure Luca Zingaretti, merita gli applausi anche quando fa il fascista. La vicenda di Accio e Manrico mi ricorda quella di tante altre famiglie degli anni Settanta, che ho conosciuto in prima persona, dove incontravi fratelli e sorelle divisi dalla passione politica, spesso fino ad arrivare alle mani, ma comunque uniti dall’affetto.

giovedì 3 maggio 2007

«1977-2007 Se io avessi previsto tutto questo »


Diario 1977

E' in edicola un numero speciale di Diario, con un dvd, che contiene due documentari di Antonello Branca. Tra le tante cose pubblicate, nella rivista, diretta da Enrico Deaglio, segnaliamo: L’ultimo anno di Aldo Moro di Guido Bodrato, e La questione socialista di Luigi Necco, sul rapimento di Guido Martino.