venerdì 18 maggio 2007

Un libro dalla parte delle vittime

Vivere dopo il naufragio

Mario Calabresi racconta la sua famiglia. E le altre

Chiara Geloni

L'unica cosa che Mario Calabresi non racconta, nel suo Spingendo la notte più in là (Mondadori, euro 14,50) è se a un certo punto l’ha capito o soltanto intuito, se insomma lo sa che un libro così lo poteva scrivere soltanto lui. Se l’ha scritto anche per questo, per una specie di dovere civico, oltre che per tutto il resto che si immagina: il bisogno di guardare in faccia, alla fine di un lungo percorso, una storia come la sua, innanzitutto. La determinazione di raccontare chi è stato suo padre, vittima di una condanna mediatica incredibile oltre che della violenza di chi l’ha ucciso, oggetto di un pregiudizio che sopravvive alla sua stessa morte, agli anni, alle sentenze: «Calabresi assassino», capita ancora oggi di sentir dire in qualche corteo, a Mario è capitato. Poi le storie degli altri, delle persone incontrate, e l’istinto da cronista di raccontarle. Infine la rabbia, il dolore, il coraggio.

Scrivere questo libro era certamente un bisogno, e Mario Calabresi non lo nasconde: gli scaffali delle librerie sono pieni di libri sugli Anni di piombo, spiega. Quasi tutti scritti dagli ex terroristi: «È un autentico filone culturale», gli dice uno dei suoi interlocutori nel libro. Gente che si è «ravveduta, anche se non pentita», come proprio qualche giorno fa abbiamo letto di una protagonista di quelle vicende. Persone che i giornali intervistano e descrivono nella loro nuova vita: volontariato, impegno sociale: quasi come degli ex combattenti indomiti. Senza che mai si racconti che cos’hanno fatto prima: dei delitti, delle responsabilità, dei morti non si parla.

Per questo, per Mario Calabresi, scrivere un libro così era anche un dovere. Non solo, ovviamente, perché lui, oltre che il figlio del commissario Calabresi, è un giornalista. Ma perché le circostanze della vita, i suoi meriti prima di tutto, lo hanno portato a essere uno di quelli che i giornali li fa, un giornalista del giro che conta. Un capo, e per giunta un capo di Repubblica: il giornale – autorizza a scriverne la schiettezza con cui Mario nel suo libro affronta l’argomento – il giornale che pubblica Sofri. Calabresi non è il (solito?) “parente della vittima” che contesta da fuori il sistema dei grandi giornali. Lui è uno che ha il peso, il ruolo e l’autorevolezza per farsi sentire, e in ogni modo, per il “sistema”, è uno con cui bisogna fare i conti. Infatti la sua presenza in questo mondo è già, di per sé, un segno di contraddizione, un invito implicito a un supplemento di riflessione: e il libro è pieno di episodi, di gaffe e di atti di sensibilità, compiuti da giornalisti cui è capitato di lavorare con Mario, di trovarsi a maneggiare la sua storia avendolo seduto accanto. Ora, con il libro, questo compito viene assunto in modo esplicito, apertamente: i “parenti delle vittime” non sono una categoria astratta, sono persone: sono io, dice questo libro a noi professionisti della cronaca, prima ancora che ai nostri lettori.

Non è per caso che a Mario Calabresi è capitato questa specie di dovere, ed è l’altro motivo per cui questo è un libro bellissimo e importante: qualche anno fa infatti lui stava per dire di no all’offerta di Repubblica, per rispetto della sua storia e di sua madre. Un politico di centrodestra, alla camera, l’aveva amichevolmente avvertito, rimettendolo al suo posto, nel ruolo che il destino gli aveva assegnato: «Tuo padre si starà già girando nella tomba», gli aveva detto.

Il dialogo in proposito tra Mario e sua madre, nella cucina cuore della casa milanese di lei, è qualcosa di così intimo e prezioso che è giusto riservarne la lettura a chi vorrà affrontare il libro per intero. Basti dire che è stato quello il momento in cui lui ha deciso di rifiutare lo schema, di andare: di essere libero. E non è che uno dei tantissimi momenti in cui questa donna, rimasta vedova a venticinque anni con due bambini piccoli e un altro in arrivo, rivela nel racconto del figlio una prodigiosa capacità di andare avanti «scommettendo sulla vita», testimoniando senza fronzoli e senza protagonismi le due gigantesche verità in cui crede: che la vita è più forte della morte e che l’amore vince sull’odio e sul rancore. Viene in mente la citazione del cardinale Tettamanzi a Verona: «È meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo», a proposito di Gemma Capra Calabresi, della sua fede vitale, concreta, antiretorica, incarnata nel quotidiano di un’esistenza segnata dalla tragedia e allo stesso tempo piena di gioia.

Così, a causa di tutto questo, alla fine Mario Calabresi ha scritto, ha dovuto scrivere, questo libro. Con il suo stile asciutto da giornalista anglosassone, con le sue precise parole da ex cronista di agenzia, mettendoci dentro tutto il suo mestiere e tutta la sua vita. Ed è capitato che alla fine il libro uscisse mentre il parlamento diceva il sì definitivo all’istituzione della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo, che dal prossimo 9 maggio, trentennale dell’omicidio di Aldo Moro, forse contribuirà a fare dell’Italia un paese un po’ più capace di vivere i suoi lutti collettivi. Se andrà così, Mario e la sua famiglia sapranno esserne felici. Ma non dimenticheranno per questo, e non sarebbe giusto lo facessimo noi, quanta fatica si fa a lasciarsi «strappare alle onde» dopo un naufragio.

(Europa, 15 maggio 2007)


1 commento:

Anonimo ha detto...

Riusciremo mai a pacificare questo periodo.
Io agganciato alla morte tremenda e ingiustificabile di Calabresi ricorderei il "malore attivo" di Giuseppe Pinelli.
A mio giudizio due vittime della stessa mano, intesa in senso hegeliano, o meglio di una certa filosofia tedesca (da cui poi, da una certa devizione è nata il nazismo e il comunismo) di spirito della storia.
Hegel parla di tesi, antitesi e sintesi....ma a quando una sintesi serena e condivisa ?
Ciao
OTELLO