Capelloni in jeans
Non ricordo il momento esatto ma ad un certo punto abbiamo iniziato a vestirci in modo differente dai nostri genitori. I capelli hanno cominciato ad allungarsi, piano piano, fino a lambire il colletto della camicia, coprendo la nuca, fino a poco tempo prima tosata a colpi di macchinetta da barbieri che sembravano aver fatto pratica nelle caserme militari. Qualcuno aveva chiesto il permesso di lasciarsi crescere le basette per il concerto romano dei Beatles, al Teatro Adriano a Piazza Cavour, nel lontano 1965, e poi non le aveva più tagliate. I pantaloni si allargavano a zampa di elefante e si abbassavano alla vita, si portavano con cinghie di cuoio lavorato, ma la rivoluzione arrivò con i primi blue-jeans. Per mio padre quelli erano i pantaloni dei vaccari, una sorta di divisa, che ti distingueva dagli altri. Li portavano i beat, gli hippy, i ribelli, non avresti trovato un vecchio di trenta anni con i jeans neppure a pagarlo. Comprarli non era facile, a Roma andavi a cercarli a Campo dei Fiori, a Via dei Chiavari, oppure in un negozietto tra la Stazione Termini e Porta Pia, ci entravi scendendo da una porticina per una scala stretta e ripida. All’inizio si indossavano blue scuro, così come li compravi, poi abbiamo iniziato a scolorirli. Li buttavi nella vasca con l’acqua calda e li strofinavi con la pietra pomice, fino a stingerli, per dargli un aspetto vissuto. Dalla zampa di elefante si è passati al jeans a cicca, stretti stretti in fondo. C’erano due partiti quello dei Levì’s e quello dei Wrangler. Io ero dei Levi’s che portavo qualche volta con un paio di stivaletti.
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