Articolo pubblicato sul forum degli studenti del liceo B. Croce
Raccontare degli anni di liceo trascorsi al Croce è come rivedere uno di quei documentari in bianco nero, che mandano ogni tanto in televisione, in tarda serata. Si vede un’Italia dimenticata persino da chi l’ha vissuta in prima persona. Siamo nella prima metà degli anni Settanta, un periodo di grandi cambiamenti e di grandi tensioni sociali, tutto appariva in movimento e la sensazione era quella di stare al centro, di essere – detto oggigiorno suona quasi ridicolo - protagonisti della storia.
A scuola si andava con quei vecchi autobus dell’Atac, verdi, come l’Alfetta della polizia, che stazionava quasi tutti i giorni davanti all’ingresso. I motorini erano pochi, tra questi il “vespino 50” era quello che andava di più, il casco non era obbligatorio, ma lo portavano in molti, più che altro tornava utile per le manifestazioni.
Il Croce, in quegli anni, era in via Palestro, all’angolo con San Martino della Battaglia, a due passi dalla Stazioni Termini. La collocazione lo rendeva facilmente raggiungibile anche dalla periferia, gli studenti arrivano non solo da quartieri borghesi come il Nomentano, Piazza Bologna, ma anche dalla Tiburtina e da Montesacro, zone più popolari. Perché in quegli anni le classi sociali, la borghesia, il proletariato, il sottoproletariato delle borgate, erano una realtà, una cosa che si vedeva, quasi tangibile, non serviva un manuale di sociologia per capire da dove arrivavi, quali erano le origini della tua famiglia.
A un certo punto - non esiste una data precisa - la moda ha coperto tutte le differenze, è bastato un paio di blue jeans per tracciare un nuovo confine, non più sociale questa volta ma generazionale. Erano pochi quelli con più di venti anni che indossavano i jeans; e dopo un po’ è bastato un eskimo, una borsa di Tolfa e un taglio di capelli più lunghi, per sentirsi “catalogato” come uno di sinistra. E a quei tempi si rischiava la vita persino per come ti vestivi, le aggressioni e gli scontri per motivi politici erano all’ordine del giorno. Allora la politica appassionava, coinvolgeva, divideva, nella società, nella scuola, persino dentro le singole famiglie, il più delle volte i figli erano contro i padri, ma capitava pure tra fratelli e sorelle di ritrovarsi, e non solo metaforicamente, su due barricate diverse. Il Croce era tra i licei più impegnati politicamente, per un lungo periodo si sono succedute occupazioni e autogestioni, quando per fare un’assemblea d’istituto dovevi scontrarti con il preside e la grande maggioranza dei professori (alcuni per fortuna erano con noi!), rischiando non solo le misure disciplinari, sospensioni e sette in condotta, ma addirittura l’intervento della polizia per sgomberare la scuola. La vicinanza della sede del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI, di Via Sommacampagna, una finestra affacciava addirittura nel cortile della scuola, è stato un elemento in più di tensione. All’epoca i professori, anche se fortemente contestati, godevano di maggiore prestigio sociale; il più delle volte criticavamo i contenuti di quello che insegnavano, così per sfidarli si finiva per studiare anche di più. Con molti di loro si era instaurato un buon rapporto, fondato principalmente sulla stima reciproca, non poche volte ci hanno fatto da scudo in situazioni di pericolo, all’uscita da scuola.
Raccontate così sembrano storie di un altro mondo è in parte lo sono, allora in Portogallo, Spagna, Grecia non c’era ancora la democrazia, vedere crollare quelle dittature è stato motivo di gioia vera, avevamo manifestato per loro, fatto assemblee, collette. Alcuni dei miei compagni l’estate del 1976, fatta la maturità sono partiti per Lisbona, quando era in corso la “rivoluzione dei garofani”. A cosa avremmo fatto da grandi non ci pensavamo, eravamo troppo impegnati. In questo senso ci sentivamo partecipi di un movimento più grande, avevamo fiducia nel futuro e nel cuore la speranza di potere cambiare, di battere le ingiustizie del mondo. Forse ci saremo illusi, ma ci credevamo. Non mi piace fare paragoni tra i giovani di oggi e quelli di ieri, non ha senso, la mia poi è stata una generazione che ha finito per essere accecata dalla ideologia, che si è fatta trascinare in una spirale di violenza atroce, tanto che quegli anni sono spesso, ingiustamente, ricordati solo come gli “anni di piombo”.
Quelli che stiamo vivendo non sono tempi facili, mancano i riferimenti, la globalizzazione ha cancellato ogni confine e ha portato dentro casa nostra le guerre e la miseria, le bidonville sono sotto le nostre finestre. Ecco quello che manca, è la speranza nel futuro, la fiducia che si può cambiare quello che non va a scuola, in Birmania, nel mondo.
A scuola si andava con quei vecchi autobus dell’Atac, verdi, come l’Alfetta della polizia, che stazionava quasi tutti i giorni davanti all’ingresso. I motorini erano pochi, tra questi il “vespino 50” era quello che andava di più, il casco non era obbligatorio, ma lo portavano in molti, più che altro tornava utile per le manifestazioni.
Il Croce, in quegli anni, era in via Palestro, all’angolo con San Martino della Battaglia, a due passi dalla Stazioni Termini. La collocazione lo rendeva facilmente raggiungibile anche dalla periferia, gli studenti arrivano non solo da quartieri borghesi come il Nomentano, Piazza Bologna, ma anche dalla Tiburtina e da Montesacro, zone più popolari. Perché in quegli anni le classi sociali, la borghesia, il proletariato, il sottoproletariato delle borgate, erano una realtà, una cosa che si vedeva, quasi tangibile, non serviva un manuale di sociologia per capire da dove arrivavi, quali erano le origini della tua famiglia.
A un certo punto - non esiste una data precisa - la moda ha coperto tutte le differenze, è bastato un paio di blue jeans per tracciare un nuovo confine, non più sociale questa volta ma generazionale. Erano pochi quelli con più di venti anni che indossavano i jeans; e dopo un po’ è bastato un eskimo, una borsa di Tolfa e un taglio di capelli più lunghi, per sentirsi “catalogato” come uno di sinistra. E a quei tempi si rischiava la vita persino per come ti vestivi, le aggressioni e gli scontri per motivi politici erano all’ordine del giorno. Allora la politica appassionava, coinvolgeva, divideva, nella società, nella scuola, persino dentro le singole famiglie, il più delle volte i figli erano contro i padri, ma capitava pure tra fratelli e sorelle di ritrovarsi, e non solo metaforicamente, su due barricate diverse. Il Croce era tra i licei più impegnati politicamente, per un lungo periodo si sono succedute occupazioni e autogestioni, quando per fare un’assemblea d’istituto dovevi scontrarti con il preside e la grande maggioranza dei professori (alcuni per fortuna erano con noi!), rischiando non solo le misure disciplinari, sospensioni e sette in condotta, ma addirittura l’intervento della polizia per sgomberare la scuola. La vicinanza della sede del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI, di Via Sommacampagna, una finestra affacciava addirittura nel cortile della scuola, è stato un elemento in più di tensione. All’epoca i professori, anche se fortemente contestati, godevano di maggiore prestigio sociale; il più delle volte criticavamo i contenuti di quello che insegnavano, così per sfidarli si finiva per studiare anche di più. Con molti di loro si era instaurato un buon rapporto, fondato principalmente sulla stima reciproca, non poche volte ci hanno fatto da scudo in situazioni di pericolo, all’uscita da scuola.
Raccontate così sembrano storie di un altro mondo è in parte lo sono, allora in Portogallo, Spagna, Grecia non c’era ancora la democrazia, vedere crollare quelle dittature è stato motivo di gioia vera, avevamo manifestato per loro, fatto assemblee, collette. Alcuni dei miei compagni l’estate del 1976, fatta la maturità sono partiti per Lisbona, quando era in corso la “rivoluzione dei garofani”. A cosa avremmo fatto da grandi non ci pensavamo, eravamo troppo impegnati. In questo senso ci sentivamo partecipi di un movimento più grande, avevamo fiducia nel futuro e nel cuore la speranza di potere cambiare, di battere le ingiustizie del mondo. Forse ci saremo illusi, ma ci credevamo. Non mi piace fare paragoni tra i giovani di oggi e quelli di ieri, non ha senso, la mia poi è stata una generazione che ha finito per essere accecata dalla ideologia, che si è fatta trascinare in una spirale di violenza atroce, tanto che quegli anni sono spesso, ingiustamente, ricordati solo come gli “anni di piombo”.
Quelli che stiamo vivendo non sono tempi facili, mancano i riferimenti, la globalizzazione ha cancellato ogni confine e ha portato dentro casa nostra le guerre e la miseria, le bidonville sono sotto le nostre finestre. Ecco quello che manca, è la speranza nel futuro, la fiducia che si può cambiare quello che non va a scuola, in Birmania, nel mondo.
2 commenti:
Il contesto, ragazzi,il contesto
Nel 1974 ero in quarta. Ricordo bene l’esperienza dell’autogestione ed anche a me pare - ma posso sbagliare - che quella del Croce sia stata una delle prime a Roma e forse in Italia. Erano anni in cui la sperimentazione delle forme di organizzazione ed autorganizzazione degli studenti era continua e quindi non è facile stabilire chi avesse cominciato. Certo al Croce eravamo all’avanguardia. Di occupazioni ce n’erano ma l’autogestione era un’altra storia. Cercavamo di portare la società dentro la scuola, che in quegli anni certo non brillava per capacità di spiegare la realtà ed innovare i contenuti educativi. In una scuola “ministeriale” dove la parola autonomia era bandita figurarsi l’autogestione. Un’operazione quasi disperata all’epoca, di cui, per la verità, eravamo solo parzialmente consapevoli. Andavamo ad istinto. Intuivamo che la corrispondenza tra quello che studiavamo e quello che la società di quegli anni ci proponeva era minima ed eravamo intenzionati ad aprire i cancelli. Credo di aver imparato “fuori” almeno quanto mi hanno insegnato “dentro” la scuola. Ho imparato ad esprimermi in pubblico, a far valere le mie idee, a progettare ed a partecipare attivamente alla costruzione di qualcosa. Quella cultura della strada che volevamo far entrare nella scuola, che era off, oggi è in. Giovanna Marini ha recentemente fatto un disco con De Gregori che è stato presentato al TG1 in prima serata. Stesso discorso vale per De Andrè, Dylan i King Krimson, per Pasolini, e persino per Dario Fo. Senza contare che nella mia vita non ho mai letto tanto intensamente come in quegli anni.
La descrizione dell’autogestione del Croce è rigorosa e le cose per come le ricordo io sono andate proprio così (non vengono citate le interminabili discussioni tra revisionisti e rivoluzionari che accendevano la preparazione dell’evento, sui cui contenuti è meglio stendere un velo pietoso). Ci sono solo due aspetti che vorrei brevemente riprendere e, se possibile, mettere a fuoco.
In primis non eravamo così tanti. Credo che la visione di un dibattito e di un impegno politico “fortemente vissuti in prima persona da tutti gli studenti” sia un pò retorica. In realtà a partecipare attivamente eravamo pochi (rispetto alla popolazione scolastica). Certo nella scuola se ne parlava, molti erano incuriositi, altri “aderivano culturalmente”. Ma che io ricordi, quello staccio di organizzazione che eravamo riusciti a darci era il frutto del lavoro di non più di 20 persone. Mi sono convinto con il tempo che il termine “avanguardie” fosse esatto. Oggi ci ricordiamo delle masse, abbiamo in memoria il movimento. ma “a muovere” eravamo in pochi. Le avanguardie c’erano e grazie al cielo ci saranno sempre. Eravamo convinti che quello che facevamo interpretasse le voglie di tutti, fosse di tutti. Ma sbagliavamo. Col tempo solo alcune cose sarebbero diventate di tutti. I diritti civili di più, il libretto rosso quasi per nulla.
La seconda riflessione riguarda il contesto. Leggendo il resoconto qualcuno potrà obbiettare che l’azione dell’autogestione, condotta da “quattro ragazzini che giocavano a fare i rivoluzionari” abbia privato gli “studenti” del regolare servizio scolastico, cioè di un diritto. Consideratelo pure un ragionamento preventivo ma siccome questa osservazione è stata più volte ripresa dai media è opportuno mettere le mani avanti. Premesso che oggi sono i presidi a sollecitare e sostenere le esperienze di autogestione nell’ambito dell’autonomia scolastica, l’osservazione “politically correct” fa solo sorridere chi in quegli anni c’è cresciuto. Nel 1974 nulla era “politically correct”. L’autogestione ancor più dell’occupazione era un reato. Ma anche la polizia che caricava senza ragione i cortei studenteschi spesso violava la legge. I servizi segreti commettevano reati. Si poteva volare da una finestra in questura. Si poteva saltare in aria in una banca o ad un comizio indipendentemente dalla casacca di appartenenza. La criminalità cresceva del 20% all’anno. C’erano le tangenti e la televisione censurava le notizie. Altro che politically correct!. Unica consolazione il fatto che i miei mi ricordassero costantemente che “in tempo di guerra era molto peggio! L’ autogestione nasce in uno dei periodi più torbidi d’Italia ed in uno scenario internazionale segnato da conflitti violentissimi. Nel settembre del ‘73 c’era stato il Golpe in Cile, ed a ottobre Egitto e Siria avevano attaccato Israele per liberare la penisola del Sinai e le alture del Golan.
In Italia mentre il Pci di Enrico Berlinguer elabora la tesi del "compromesso storico" a novembre il gruppo terrorista di destra "Rosa dei venti" viene scoperto dalla magistratura e risulterà legato ai servizi segreti italiani e di alcuni Paesi della Nato. Sempre a novembre vengono varate le misure d’austerità straordinarie per contenere i consumi petroliferi. A dicembre a Torino, le Brigate Rosse rapiscono il direttore del personale Fiat Ettore Amerio che sarà rilasciato poco dopo ed un commando palestinese assalta, a Fiumicino, un aereo della Panam diretto a Beirut, provocando trenta morti. Nel febbraio del 1974 la magistratura apre un’inchiesta sui fondi utilizzati dalle società petrolifere per condizionare la politica energetica che porterà all’inquisizione degli ex ministri DC e PSDI. Il 4 marzo nasce il quinto Governo Rumor, un tripartito DC-PSI PSDI appoggiato dal PRI. Succede al quarto governo Rumor che si era insediato nel luglio del ’73. Il 7 aprile è votato il finanziamento pubblico ai partiti ed il 18 le Brigate Rosse rapiscono il giudice Sossi rilasciato circa un mese dopo. Sempre ad aprile viene sospeso a Divinis Don Franzoni ex Abate delle Basilica di San Paolo Fuori le Mura per essersi dichiarato favorevole al mantenimento del divorzio. In Portogallo viene deposto il regime fascista avviando il paese alla democrazia (in Grecia i colonnelli verranno cacciati tre mesi dopo). Il 12 maggio si svolge il referendum per abrogare la legge sul divorzio dove vincono i NO con il 59% dei voti. A Brescia, un militante di estrema destra muore dilaniato da una bomba che sta trasportando ed il 28, sempre a Brescia, scoppia un bomba durante una manifestazione sindacale provocando otto morti e trenta feriti (i colpevoli non verranno mai identificati). Sempre in quei giorni i carabinieri scoprono un campo paramilitare dell’estrema destra nei dintorni di Rieti. Nel conflitto a fuoco con le forze dell’ordine muore un militante di Avanguardia Nazionale. Ai primi di giugno si dimette il V Governo Rumor. Il presidente Leone lo rinvia alle Camere, ottiene la fiducia ma sarà sostituito, cinque mesi dopo dal quarto Gabinetto Moro, un bicolore DC - PRI appoggiato dall’estero da PSI e PSDI. Il 17 giugno le Brigate Rosse uccidono due esponenti missini a Padova: è il loro primo omicidio. Il 6 luglio il governo vara una serie di forti aumenti delle tariffe dei servizi e istituisce la prima imposta una tantum su case, auto, moto e natanti. L’inflazione è al 19,4%. Il 4 agosto un attentato al treno Italicus provocherà 12 morti e 44 Feriti.
E’ in questo “anno scolastico” che si colloca l’autogestione del Croce condotta da “fanatici” di 17 e 18 anni che volevano far entrare queste cose dentro la scuola. Per questo fanno sorridere quei giovani commentatori, “culturalmente corretti” che giudicano gli anni settanta con gli occhi “democratici” di oggi. Il contesto, ragazzi, il contesto.
Maurizio
"Ecco quello che manca, è la speranza nel futuro". Cose da matti, guarda che scrivevo un anno fa sui giovani di oggi! Ed ora sono lì in migliaia in tutta Italia a manifestare per riprendersi il loro futuro. Bravi
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