venerdì 30 gennaio 2015

Recensione: "Cattolici e violenza politica", di Guido Panvini

L’altro album di famiglia del terrorismo italiano


Tutti i buoni libri che affrontano il tema del terrorismo nel nostro paese sono una ricchezza. Come lo è quello di Guido Panvini, Cattolici e violenza politica, uscito da Marsilio (400 p.,€22), che approfondisce una aspetto importante della cosiddetta lotta armata in Italia. Il volume aiuta a capire come da idee fondate di mutamento e giustizia sociale (maturate negli ambienti cattolici e cristiani), come quelle emerse a partire dagli anni '60, un gruppo di persone, per lo più giovani, abbia pensato di passare alla lotta armata ritenendo di essere alle soglie della nascita di una dittatura e di muoversi sotto un regime. Che ogni terrorismo abbia qualcosa di religioso e fideistico è noto, ne facciamo i conti ancora oggi. Ricorda l'autore come comunque, negli anni affrontati dal saggio,: «l'adesione e la militanza nei movimenti armati non è stato il risultato di una devianza, bensì la conseguenza di un complesso intreccio di mobilitazioni politiche». Il libro di Panvini si inoltra, come detto, nel mondo cattolico, da sempre combattuto tra l'annosa questione della "guerra giusta", della violenza necessaria a rimuovere il tiranno e la non violenza, e/o la resistenza passiva e la disobbedienza civile. Ricordo le riflessioni che su tale questione si ebbero, ad esempio, durante la Resistenza (cui pure parteciparono a vario titolo, nei modi più differenti, molti cattolici e credenti). Significative le parole di Moltmann riportate nel volume: «Se si oppone la violenza alla violenza, sarà difficili abolire dopo la violenza la rivoluzione [...] Se il fine della rivoluzione è un'umanità realizzata in modo migliore, non bisogna perdere di vista questo fine anche durante il così detto «periodo di transizione» [...] I mezzi rivoluzionari devono essere continuamente confrontati con i fini umanitari, altrimenti la rivoluzione minaccia di finire e di affondare nel terrorismo o nella rassegnazione. Come l'uso della violenza intende aiutarci per ottenere il regno della fraternità non violenta ? E' l'insolubile difficoltà logica dell'azione rivoluzionaria. Chi accetta la legge del suo avversario non è ancora un uomo nuovo». Risulta difficoltoso capire come, pur di fronte ad un mondo che cambiava, come quello della vecchia Europa, recando legittime istante di libertà e progresso, da suddividere fra tanti (e per questo fra molte resistenze) si sia fatto il salto ed imbracciato le armi (direttamente o favorendo in qualche modo trame eversive): sia in senso conservatore, con la paura del comunismo, sia in senso rivoluzionario con l'intento di abbattere il sistema. La contestualizzazione del periodo può aiutarci a capire: il primo centrosinistra con l'apertura al Psi che in alcuni ambienti del conservatorismo cattolico sembrò il preludio dei cosacchi in Piazza San Pietro; il boom economico che mutava la geografia e l'aspettativa sociale di vasti strati di giovani e di lavoratori; la fabbrica fordista come terreno e veicolo di emancipazione con l'operaio che veniva percepito sia come avanguardia rivoluzionaria sia come avanguardia evangelica; la fine del colonialismo, con le spinte all'autodeterminazione dei popoli in un contesto teso e difficile segnato dalla cortina di ferro e da una rivisitata ed aggiornata, in senso ampio, dottrina Monroe; il concilio Vaticano II. Nel mondo cattolico il concilio ha rappresentato, scrive Panvini, uno snodo fondamentale: «Sulla scia di quei fermenti, infatti, nacque una tormentata riflessione tra fede, militanza politica e scelta rivoluzionaria». Il Vaticano II sembrò, ad un certo momento, rappresentare, per alcuni, molto di più di quanto immaginato dagli stessi promotori. Anche in quel caso delle comprensibili richieste di progresso liturgico ed esegetico, di uguaglianza e di lotta alla povertà vennero, in certi ambienti, lette in modo estremistico. Dirà Dossetti, protagonista di quell'evento, nel 1994 a Pordenone, che il concilio ha avuto un limite reale: «che era stato tutto pensato ancora in regime di cristianità e supponendo sostanzialmente ancora un regime di cristianità, dal quale si è allontanato per poche cose. Quindi ha inquadrato i rapporti col mondo, specialmente nella Gaudium et Spes, in una visione ottimistica, troppo ottimistica, e in una supposizione, non più vera, che il regime globale - sociale, culturale, politico - fosse più o meno, con differenze rilevanti fra le diverse nazioni, quello ereditato dal vecchio regime cristiano. E quindi per molti aspetti si è trovato a scontrarsi con una situazione nuova, diversa, non facilmente amalgamabile. Questa potrebbe essere la ragione profonda del suo arresto, della sua stasi e nell'ordine della ricezione completa e dell'impulso reale dato al popolo di Dio e alle sue guide.» Riflettendo oggi su quel periodo, resta sempre la perplessità di come si sia potuto arrivare a tanto. Scrive l'autore, a mio parere giustamente, che: «Nè la ricerca di risposte univoche e definitive ai problemi della società contemporanea può comportare da sola, la legittimazione dell'uso della forza così ricorrente in quegli anni». E aggiunge: «Sarebbe mancata a lungo una riflessione sulle vittime di quella violenza, troppe volte messe sullo stesso piano dei loro carnefici, mentre una maggiore attenzione alla sproporzione tra mezzi e fini, implicita nell'uso politico del terrore, avrebbe aiutato a comprendere il sovrainvestimento ideologico e le divisioni che segnarono la politica e la società in quella drammatica stagione della storia repubblicana». E' un volume che, a mio parere, va anche oltre lo specifico (come tutti i libri sull'argomento) perchè indica una visione sostanziale e di fondo: dove può portare, cioè, la manifestazione concreta e la interpretazione di parte, in modo capzioso, degli ideali che diventano ideologie, trasformandosi in fenomeni totalizzanti e subdolamente "avvolgenti" nella vita delle persone. 

domenica 4 gennaio 2015

Er Cecato (Massimo Carminati)

Compagni di scuola ... Si fa per dire

E così c'è anche chi si ricorda di Massimo Carminati al liceo scientifico B. Croce di Roma, sarebbe stato iscritto per un anno, nella sezione G, insieme con altri "fascistelli". Poi avrebbe lasciato la scuola per un altro istituto meno "Rosso". All'epoca capitava anche questo. Francesca Mambro invece andava all'Oriani, l'istituto tecnico magistrale di Piazza Indipendenza. Al Croce c'era invece il fratello. Almeno così raccontano alcuni ex-studenti di sinistra del liceo romano su Facebook.